(di Sara Crimi)
Alzi la mano chi, almeno una volta – ma siamo sicuri che sono molte di più –, ha sentito parlare della “vita agra” dei traduttori editoriali, declinata in tutte le varianti dello stereotipo.
Si comincia dalla “sfortuna di nascere traduttori” (vi confidiamo un segreto: traduttori si diventa, lavorando sodo e formandosi continuamente), poi ecco i poveri traduttori al limite del crollo psicologico che ardono d’amore folle per ciò che fanno (ecco un altro segreto: succede anche di arrivare a detestarlo, il testo), “poveri” anche perché poco pagati (ammettiamolo, c’è del vero, ma ci piace riformulare i termini della questione spiegando che, sì, le offerte tendono al ribasso, ma noi stiamo affinando gli strumenti per arrivare a una contrattazione più soddisfacente), bistrattati e negletti in ogni modo possibile. Sembra che la stampa sappia parlare della professione del traduttore solo per compatirlo, accontentandosi di un cliché che non rispecchia la sua vitalità e la sua importanza nella filiera culturale. Nonostante ci si dipinga come hobbisti di lusso, persone che per qualche oscura ragione fanno un mestiere con cui non si campa, o che si possono permettere di tradurre grazie a un coniuge abbiente, la realtà è che siamo professionisti come molti altri. Lavoriamo con i codici e le parole, come gli avvocati, esaminiamo e sezioniamo i testi, come gli scienziati studiano i fenomeni naturali, costruiamo e progettiamo, come architetti e ingegneri. Non ci sentiamo dei privilegiati, vogliamo il riconoscimento economico e morale che spetta a ogni categoria di lavoratori. Di certo non accettiamo di lavorare a qualunque condizione per vedere il nostro nome stampato su un libro o per la gloria della cultura. Quantomeno non lo fanno quanti di noi, e siamo tanti, vivono di traduzione.
La rivista del Sindacato Traduttori Editoriali Strade vuole fare la propria parte nel diffondere un’immagine reale e realistica della professione e del mondo in cui ci muoviamo tutti i giorni.
In questo numero – per il quale abbiamo scelto una pubblicazione “a scaglioni”, optando per mettere online gli articoli poco alla volta – affrontiamo diversi temi: Giuseppina Oneto intervista Hilary Mantel, una delle “sue” autrici, Cristina Vezzaro dialoga con la scrittrice e traduttrice Susan Bernofsky, poi ci racconta di un curioso esperimento con la risonanza magnetica (chi ha detto che i traduttori fanno una vita monotona?), Anna Rusconi ci parla dell’esperienza di “Mrs Carter”, un workshop che riunisce ogni anno traduttori professionisti… e non è tutto.
Voglio chiudere questo breve editoriale con un ringraziamento a Federica Aceto (che mi ha preceduta alla direzione della rivista, con una perizia che non spero di eguagliare), Chiara Marmugi, Barbara Ronca e Claudia Zonghetti, che hanno lavorato ai primi sei numeri della rivista e delle quali la redazione attuale – composta da Vincenzo Barca, Francesca Novajra, Giuseppina Oneto, Cristina Vezzaro, Giovanni Zucca – raccoglie il testimone.
Nell’augurarvi buona lettura, vi diamo un suggerimento: la prossima volta che leggerete qualche lacrimosa descrizione della professione del traduttore editoriale, rispondete, “Vita agra ce sarete voi!”.
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Molto vero e giusto!
Sembra che la stampa sappia parlare della professione del traduttore solo per compatirlo (…)
Sembra però che tanti traduttori altro non chiedano; non mi viene in mente un’altra categoria del pari afflitta e lamentosa!
Grazie, ciao